"Più gente viene a teatro, più artisti nascono", spiega. Magia, comicità e palcoscenico: il teatro è un rito che fa bloccare il tempo.
Fare il mago è il suo primo amore, una linfa di passione che non lo abbandona mai: lo dimostra ancora una volta, portando il Festival della Magia a teatro, in scena al Teatro Manzoni di Milano dal 2 all'8 gennaio 2017. Raul Cremona è il gentleman della magia che, grazie alla “prestidirigirimidirimizazione”, ha avvicinato una fetta importante di pubblico, un mistero – come lo definisce lui - che svela ogni volta che sale sul palco.
Festival della Magia. L’ha portato anche l’anno scorso e ha riscosso un buon successo. Quest’anno però i maghi sono principalmente internazionali: che differenza c’è con quelli nostrani?
Nei Paesi come Francia, Inghilterra, Spagna c’è molta più attenzione per questa tradizione dell’illusionismo e quindi ci sono più possibilità. In Inghilterra, addirittura, ci sono locali e teatri in cui i prestigiatori e gli artisti possono esibirsi. In Italia decisamente meno: infatti qui la magia è un’arte un po’ dimenticata, non essendoci purtroppo più in questi anni dei locali dove potersi far conoscere. Di conseguenza l’ultimo degli artisti che appare è proprio il mago, perché oggi va di più il cabaret e tutto ciò che la televisione richiede. Quindi siamo sempre più costretti a “pizzicare” oltreoceano oppure oltremanica.
Nel periodo dei talent, questo Festival può essere considerato come un trampolino di lancio per giovani maghi?
Questa storia dei talent è un’invenzione dell’ultimo momento. Si prendono dei professionisti e si mettono in quel contesto di gara, che sicuramente dà la possibilità a molti di mostrarsi, però l’idea che anche grandi professionisti partecipino a queste trasmissioni nelle quali sono confinati a ruolo di partecipanti non è che mi piaccia moltissimo. Io preferirei un ritorno al varietà. Con questa formula dei Talent rischiamo di trovare degli artisti più bravi dei conduttori. (Ride)
Lei ha iniziato prima la carriera da mago rispetto a quella da comico. Quando ha capito di poter – e voler -fare il mago?
Ho cominciato con le scatole dei giochi di prestigio, come tutti i bambini. Poi, a 17 anni, è diventata una passione e a 27 una professione. Nella mia mente era chiara e lampante l’idea che non ci dovesse essere solo la magia come riferimento, ma avrei voluto abbracciare un po’ tutte le specialità dello spettacolo. Infatti, secondo me, un bravo prestigiatore dovrebbe essere anche un bravo musicista, un bravo conduttore, una spalla, un monologhista. Tutte queste cose ho cercato di affinarle un po’ dopo. All’inizio, però, ho proprio cominciato facendo il prestigiatore.
La vena comica quando è arrivata?
Alcuni dicono che io abbia deciso di diventare comico per comodità, ma non è così. Mi era già congeniale la magia comica. Prima la magia era brillante, poi diventa comica con i personaggi, malgrado me, perché non è la mia volontà quella di fare il comico. Nel mio più intimo io desidero essere un prestigiatore – uno di quelli divertenti! Chi ha detto che la magia non debba essere divertente?
Quando ha capito che la sua carriera artistica era sul binario giusto?
All’inizio mi domandavo: “Ma io riuscirò a fare qualcosa di importante?”, ma avevo ben chiaro cosa volessi fare nel futuro. Poi già il fatto che riuscissi a mantenermi facendo il mago, per me era una magia (ride). Negli anni giovanili questa magia è stata sufficiente per dare la linfa, dopo è servito un percorso più completo. Ma se non avessi avuto la fortuna di fare televisione, sarei andato avanti a difendere la mia cifra di mago divertente. Quindi il successo, secondo me, in parte già ti appartiene.
Cos’è per lei il teatro?
E’ un luogo mistico e sacro, come una Chiesa. Se tu lo guardi bene, in realtà, l’altare della Chiesa è come se fosse un teatro, dove si compie un rito. Nei teatri che frequentiamo noi si compie un altro rito: il rito nel quale, per un attimo, il tempo si blocca. I problemi che il pubblico ha dentro di sé si annullano, si concretizzano - oppure si risolvono. Senza il teatro perdiamo una parte di noi, perché il teatro non è un luogo, è una condizione. Il teatro può essere qui, su un tavolo, in una sala.
Cosa ricorda del suo primo spettacolo teatrale?
Era davvero parecchio tempo fa, ma il mio primo spettacolo non lo definirei proprio teatrale: diciamo che è stato il mio primo spettacolo davanti a un pubblico. Quello me lo ricordo perfettamente: sono arrivato con un paio di carte, ero convinto di fare un giochino e invece mi hanno comunicato che avrei dovuto fare 40 minuti sul palco! Sono tornato a casa, ho preso tutto quello che avevo, un paio di foulard e un mio amico con la chitarra, sono salito sul palco e mi sono divertito tanto. Sono sceso dicendo dentro di me: “a me piacerebbe fare questo mestiere”.
Quando si scende dal palco, a fine spettacolo, a cosa pensa? Al pubblico, a come migliorare lo spettacolo o alla data successiva?
Dipende dagli anni che uno ha. All’inizio pensavo: “quale sarà il prossimo?”; adesso comincio a dire :“Raul, questa cosa qui va bene, però potresti migliorarla, toglierla…”. Col tempo la saggezza ti insegna a essere un po’ più esigente. Da giovane, invece, sei più disinvolto e forse anche più incosciente.
E il pubblico? Spesso è parte attiva nei suoi spettacoli.
Il pubblico è un mistero, se non lo conosci e non lo capisci sei fuori strada. Nessun artista può pensare di essere sufficiente al pubblico. E’ l’onda che determina quello che tu farai, devi sintonizzarti sulla sua frequenza, perché il pubblico varia e non puoi mai avere la leggerezza di sottovalutarlo. E’ lui che determina il tuo successo. Senza questa concezione ci troviamo di fronte a delle cose che crescono e finiscono, ma se vuoi andare avanti tutta la vita a fare questo mestiere devi votarti a questa religione: il pubblico.
Nella sua carriera ha fatto tutto: teatro, televisione, radio, eventi privati e festival. A cosa non rinuncerebbe mai?
Non rinuncerei mai alla linfa che è contenuta nella passione, nel mio caso legata ai giochi di prestigio. Se dovessi scegliere adesso vorrei scegliere di fare del cinema, che è bello ma molto faticoso. Secondo me la mia dimensione però è sempre quella del pubblico, è più diretto, più immediato, mi libero, è come se mi tirassi via questa maschera. Invece il cinema è fatto di tempi costretti, di battute da pronunciare, sono cose che non mi appartengono: forse per questo mi piacerebbe provarlo.
Il teatro è fatto di organizzatori, produttori, comunicazione e, appunto, pubblico. Quale di questi elementi andrebbe migliorato per portare più gente a teatro?
Torniamo alla religione a cui votarsi: secondo me bisognerebbe lavorare molto di più sul pubblico. Nessuna categoria, in realtà, è così indispensabile, ma la più importante è sicuramente quella del pubblico. La cultura di questi ultimi anni ha spinto la gente verso uno spettacolo di stampo morboso: vogliono sapere come vive quello lì, cosa fa, quanto sta in bagno, tutto quello che non serve. Questi anni dell’edonismo spingono i giovani ad accostarsi allo spettacolo inteso come “voglio essere qualcuno” più che “voglio diventare qualcuno”. Uno deve diventare bravo e per imparare a suonare il pianoforte bene, non devi fare la foto mentre sei seduto al pianoforte. La cultura degli ultimi anni ci spinge di più all’atto edonistico che a quello concreto. Quindi bisogna educare il pubblico ad accostarsi allo spettacolo: più la gente viene a teatro e più artisti nascono. Non si può educare il pubblico se la cultura che ci precede non ha questa sensibilità. Se dall’alto continuano a farci credere che “con la cultura non si fa denaro”, allora siamo a posto… Invece si fanno i soldi con la cultura! Basti pensare ai musei e al teatro.